26 Aprile 2024 05:48

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Siamo talmente informati che non riusciamo a informarci e capire

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Nella primavera del 1986 (a maggio, perché dal 26 aprile l’URSS aspettò che la nube fosse in Svezia…) quando dopo l’incidente di Chernobyl ci dissero, se avete più di 40 anni lo ricorderete, che era meglio non uscire di casa quasi nessuno si oppose. Certo, nulla a che vedere con la situazione odierna. Ma se facciamo i dovuti confronti qualcosa su cui riflettere esiste.
In carica avevamo il secondo governo Craxi, tre canali tv Rai, erano i primordi di Mediaset (nulla a che vedere con il trash odierno), radio private pochine e non certo potenti. Giornali cartacei e basta.
Oggi con internet tutto ciò di cui sopra è moltiplicato almeno per cento. Senza contare che ci sono migliaia, forse centinaia di migliaia, che informano dalle loro posizioni pubbliche sui social. E non c’è solo Facebook. YouTube, Twitter, Instagram e i servizi di messaggistica. Più almeno cinquanta milioni di smartphone.
Ci sono talmente tanti strumenti e fonti d’informazione che dovremmo essere dei pozzi di scienza. Senza contare che la facilità d’accesso permette a chiunque di arrivare alle notizie.
E allora come si spiega che sull’emergenza sanitaria la maggior parte del paese non è minimamente informata? Che non esiste un’opinione pubblica concorde su come la stiamo affrontando e su come ne usciremo. Non una maggioranza bulgara, sia chiaro, ma c’è una tale fluidità di correnti, opinioni ed esperti che sparano sentenze h24 che non si può affermare che l’Italia ha una visione del problema.
Ti aspetteresti che, dato che si parla di guerra, tutti remino dalla stessa parte e che anche se non condividono, anche politicamente, gli organi di governo centrale o regionale, lo sforzo patriottico porti le persone a trovarsi in qualcosa di comune. Si chiama comunità.
Ecco, forse, prima di parlare di fallimento europeo, una domanda anche sul paese andrebbe fatta. Ma quanto siamo divisi? Su tutto e tutti. E fa veramente male vedere che l’informazione, anche di fronte a 20mila morti, faccia ancora il tifo per questo o quel partito o politico. Nessuno escluso.
Non è giusto esprimere giudizi sul piano sanitario, se non sei un medico, ma sul piano comunicativo è evidente che il Covid-19 ha slatentizzato il fallimento del sistema informativo italiano. Frammentato, partigiano e che su YouTube ha meno lettori del “dottor Culocane”. Che però ci martella da giorni con la storia degli “editori responsabili” e “l’informazione è una cosa seria” o “affidati ai professionisti” e apre le home di giornali con “Diletta che cucina: il video è bollente” o che svuota le redazioni di gente capace riempiendole di giovani schiavi sottopagati (a cottimo) che non conoscono la differenza tra Luis Sepulveda e Gabriel Garcia Marquez e che, affamati a dir poco, intervistano i (presunti) potenti o gli amici, per un panino con la mortadella. Come biasimarli?

Abbiamo mille strumenti per farci un’opinione eppure girano per settimane post e notizie che manco uno che si informa con le scritte nei cessi della stazione può pensare siano veri.
Ricordando, mentre girano miliardi di euro in commesse “urgenti”, che l’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) classifica l’Italia al 51° posto nel mondo con un punteggio di 53/10, quello nella libertà di stampa non ci vede oltre la 43ima posizione. All’estero ci vedono così, non solo quelli del Colosseo.
Non è un caso quindi se dopo due mesi e centinaia di conferenze stampa non abbiamo ancora capito perché ci troviamo in questa situazione in Italia (e in Lombardia in particolare) e perché altri paesi ne stanno uscendo prima e meglio di noi. Perché la “bomba atomica” non guarda in faccia a nessuno, ma solo nello stivale sta marcando numeri spaventosi.
Siamo il paese più bello del mondo, ma siamo anche altro e sarebbe il caso di smettere di prendersi meriti per quello che gli italiani hanno fatto nel passato, realizzando qualcosa di più serio che promesse e annunci. E chi informa professionalmente, se non vuole sparire, dovrà necessariamente fare un salto di qualità.

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