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Un’infanzia rubata da uno schermo

un’infanzia rubata da uno schermo

Il grande silenzio digitale: bambini ipnotizzati e genitori assenti


Una volta la spiaggia era un regno di castelli di sabbia, palette colorate e rincorse tra le onde. Oggi, in troppe scene da cartolina, i bambini di tre anni siedono immobili, con la sabbia tra le dita e gli occhi incollati a uno schermo, mentre attorno regna un silenzio inquietante. È l’immagine perfetta di un’infanzia che si sta perdendo. E il colpevole non è lo schermo in sé, ma l’uso passivo e indiscriminato che ne fanno gli adulti.

I ristoranti sono diventati le nuove sale di proiezione. Non è raro vedere famiglie intere che, invece di parlare, condividere o litigare come succedeva una volta, restano immerse nel nulla digitale, con lo smartphone piazzato davanti al piatto per “calmare” i bambini. Un silenzio innaturale, dove la tecnologia ha sostituito il dialogo, lo sguardo complice, l’interazione autentica.

Questo fenomeno ha un nome: assenza educativa mascherata da presenza fisica. Il genitore c’è, ma non è presente, e questo disallineamento ha un impatto devastante. Lo smartphone non è più solo un mezzo per intrattenere, ma è diventato il nuovo ciuccio, la nuova babysitter, il nuovo tutto. Eppure, ogni minuto passato davanti allo schermo è un minuto rubato alla costruzione dell’identità del bambino.

Le neuroscienze lo confermano: durante i primi anni di vita, il cervello è come un cantiere aperto. Ogni esperienza sensoriale – un odore, un suono, una carezza, una caduta – contribuisce a costruire connessioni sinaptiche fondamentali per lo sviluppo cognitivo, motorio ed emotivo. Quando sostituiamo queste esperienze con contenuti digitali passivi, stiamo letteralmente riscrivendo la struttura cerebrale in modo diverso, e spesso dannoso.

Il danno, però, non è solo neurologico. Chi lavora nella scuola lo vede tutti i giorni: bambini che non riescono a concentrarsi, che faticano a comprendere un testo, che si perdono dopo poche righe. È il risultato di anni trascorsi a ricevere stimoli veloci, facili, istantanei, senza dover mai aspettare, senza mai annoiarsi, senza mai davvero pensare.

E qui entra in gioco una verità scomoda: è più facile dare uno smartphone a un bambino che costruire una relazione educativa. Meno capricci, meno pianti, meno sforzo. Ma anche meno gioco, meno immaginazione, meno crescita.


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Il digitale come fuga dalla responsabilità

C’è un punto fondamentale da chiarire: il problema non è la tecnologia, ma l’uso che ne facciamo. Lo smartphone può essere un alleato straordinario se usato con consapevolezza. Ma oggi, nella maggior parte dei casi, è diventato una scorciatoia educativa, un anestetico emotivo. Un modo per non affrontare la fatica della genitorialità, quella fatta di ascolto, presenza, limiti, no, crisi, errori, tentativi. Insomma: quella vera.

Il tempo davanti allo schermo – chiamato ormai universalmente screen timenon è mai neutro. Ogni minuto che un bambino trascorre davanti a un video animato, a una canzoncina che si ripete, a un cartone pieno di colori e suoni iperstimolanti, è un minuto sottratto alla scoperta del mondo reale. Meno tempo per correre, cadere, annoiarsi, creare, fare finta di cucinare con la sabbia o di parlare con un sasso. Tutto ciò che è essenziale per sviluppare la mente.

Secondo diversi studi recenti, l’uso eccessivo di dispositivi in età prescolare può compromettere aree cruciali del cervello, come quelle legate alla memoria a lungo termine, all’attenzione sostenuta e persino alla regolazione emotiva. In altre parole, non si tratta solo di “spegnere” un bambino iperattivo: si sta modellando la sua capacità futura di apprendere, relazionarsi e vivere nel mondo.

La cosa ancora più inquietante? È che molti genitori ne sono consapevoli, ma scelgono lo stesso di mettere la pace momentanea davanti al benessere a lungo termine. Si sente spesso dire: “Solo dieci minuti”, “Ma è un video educativo”, “Almeno sta fermo”. Ma la somma di dieci minuti ripetuti ogni giorno, per settimane, mesi, anni, non è più un’eccezione: è un’abitudine. E le abitudini creano identità.

Inoltre, cosa stiamo insegnando a questi bambini? Che la noia è intollerabile. Che il silenzio va riempito. Che ogni vuoto deve essere coperto da uno stimolo esterno. Stiamo crescendo generazioni che non sanno più aspettare, che non tollerano la frustrazione, che non sviluppano l’autonomia del pensiero.

La responsabilità è nostra, non dei bambini. Sono i genitori a decidere se offrire un telefono o proporre un gioco. Se sedersi accanto per raccontare una storia o avviare un video su YouTube. Se essere presenti, oppure solo fisicamente vicini, ma emotivamente assenti.


Spegnere lo schermo

La domanda che molti genitori si pongono – spesso in silenzio, con un senso di colpa che brucia – è semplice: “E quindi? Cosa faccio invece?”. Perché è facile criticare l’abuso di schermi, ma molto più difficile è offrire alternative sostenibili, quotidiane, reali. La buona notizia? Le soluzioni esistono. E non servono app costose, corsi online o regole complicate. Serve la volontà di esserci davvero.

Iniziamo da un concetto spesso sottovalutato: la noia. Oggi è vista come un nemico, come un vuoto da riempire subito con qualcosa di pronto, di colorato, di stimolante. Ma la verità è che la noia è fertile, è necessaria, è creativa. È nella noia che nascono i giochi inventati, le domande curiose, i mondi immaginari. È grazie alla noia che i bambini imparano ad arrangiarsi, a trovare soluzioni, a far funzionare la testa senza input esterni.

Quindi no, non c’è bisogno di “intrattenere” sempre i figli. Basta lasciare spazio. Uno spazio non pieno di rumori o di schermi, ma di tempo lento, di materiali semplici, di stimoli sensoriali reali. Una scatola vuota può diventare una nave. Un bastone, una spada. Un sasso, un tesoro. La fantasia ha bisogno di silenzio per accendersi.

Altre alternative? Tante, e semplici:

  • Leggere insieme: un libro condiviso è un tempo di qualità impagabile.

  • Passeggiare senza meta, magari nel verde, con uno zaino e una lente di ingrandimento.

  • Fare piccoli lavoretti manuali, anche solo impastare farina e acqua.

  • Ascoltare musica, cantare, ballare, stonare.

  • Fare niente, ma farlo insieme.

Tutte queste attività hanno qualcosa in comune: richiedono la nostra presenza reale, non solo fisica. Richiedono attenzione, ascolto, empatia, pazienza. Richiedono di stare, non solo “fare qualcosa per tenerli buoni”.

E se ci sono momenti in cui davvero non si può fare altrimenti, meglio pochi minuti di contenuti selezionati e condivisi, piuttosto che ore di “intrattenimento passivo”. Lo schermo non è il male assoluto, ma va usato con intenzione, non come tappabuchi.

Infine, serve anche una cosa che pochi dicono: coraggio. Il coraggio di essere genitori presenti in un mondo che premia la distrazione. Il coraggio di dire no, di sopportare un capriccio, di spiegare mille volte perché “oggi niente telefono”. Il coraggio di scegliere la relazione invece della resa.

Perché, alla fine, ogni minuto che togliamo allo schermo è un minuto che restituiamo alla crescita autentica dei nostri figli.

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